a proposito della neve fradicia
liberamente tratto dal romanzo “Memorie dal sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij
progetto, regia, interpretazione ed elaborazione drammaturgica Marco Sgrosso
e con Carluccio Rossi
scene e immagini Carluccio Rossi - progetto luci Max Mugnai - suono
Raffaele Bassetti e Roberto Passuti - costumi Marta Benini - assistente
alla regia Mattia Visani
produzione CRT Milano in collaborazione con Le belle bandiere e con il sostegno del Comune di Russi
debutto: 17 aprile 2012 - Teatro Salone CRT, Milano
___«… io sono un uomo malato… sono un uomo cattivo… sono odioso…»
La prima volta che ho incontrato in scena la scrittura forte e
appassionata di Fëdor Dostoevskij è stato in occasione dell’allestimento
de “Gli occhi dei matti” – secondo spettacolo de Le belle bandiere,
realizzato nel 1995 assieme ad Elena Bucci e tratto da uno dei più bei
romanzi di tutta la letteratura, “L’idiota”.
In seguito, per molto tempo la teatralità innata e potente delle sue
visioni e il fascino irresistibile dei suoi personaggi hanno continuato
ad esercitare su di me un desiderio costante di confronto. Ho quindi
deciso di rituffarmi nell’universo dei “tormenti e tormentucoli” dei
suoi personaggi e nell’indagine sulle ossessioni-illuminazioni
dell’individuo, scegliendo il suo romanzo forse più ‘intimo’ e teatrale,
“Memorie dal sottosuolo”.
Il primo approccio al lavoro è stato la realizzazione di una
lettura-concerto basata su una rielaborazione del romanzo, dove la
semplicità della mise en espace – un pianoforte, una sedia e un leggio –
era arricchita dalla presenza di Andrea Agostini, che improvvisando al
pianoforte seguiva con me le elucubrazioni ossessionate e a tratti
ridicole del protagonista in cerca di una pace interiore
irraggiungibile.
È nato così un primo studio in forma di lettura-concerto, che ha avuto
un’inaspettata fortuna e che continuo a tenere in repertorio.
Ora sento maturo il momento di dare una forma teatralmente più compiuta
all’intensa e dolorosa confessione di questo “io” emarginato, in perenne
e rovinosa guerra con il mondo che lo circonda ma soprattutto con se
stesso.
Un “io” che trovo di un'attualità sconcertante, oggi che ogni autonomia
di sentimento e di pensiero è continuamente insidiata da modelli di
omologazione che spesso si trasformano in pericolose gabbie.
L’analisi crudele di Dostoevskij - in un continuo crescendo di emozione -
ci restituisce il ritratto di un uomo che si confronta con la propria
meschinità di sentimenti e con la propria incapacità di amare e, nel
farlo, si interroga senza pietà sul senso profondo di un’etica
interiore, che non va confusa con il moralismo.
Come attore – e come uomo – mi ha intrigato il ritratto di questa
creatura sofferente e sgradevole, “eroe o pezzo di fango”, arreso
all’assenza di ogni speranza e ad una celebrazione così totale della
propria disistima da risultare amaro e grottesco oltre che repellente. E
mi ha riempito di interrogativi – che vorrei lasciare aperti allo
spettatore – il racconto senza respiro di questa crisi interiore che
sfocia in una tenerezza spinosa, che pure apre uno spiraglio luminoso
alla compassione e ad un timido gesto d’amore…
(note di regia)
Assieme a Carluccio Rossi – già compagno d’avventura nella realizzazione
di “Ella” di Herbert Achternbusch –, ho immaginato uno spazio angusto e
sbilenco, un ruvido interno in cui questo uomo è al tempo stesso
prigioniero e carceriere di se stesso, una sorta di angolo-sottosuolo in
cui si è esiliato dal mondo per vivere quasi allo stato di ‘barbone
cosmico’, ripercorrendo la memoria umiliante del suo fallimento
esistenziale, mentre un lento e perpetuo movimento di forme suoni e
colori invade lo spazio e si intreccia alle parole, con il peso di
quella neve fradicia, simbolo di un candore sporcato, che cade a falde
larghe a coprire le vie e i tetti di Pietroburgo.
In questo universo claustrofobico visivo, anche il suono riverbera le
ossessioni di una coscienza invasa, creando un’ulteriore gabbia in cui
il protagonista si trova incatenato.
Della furente parabola di Dostoevskij ho voluto privilegiare la prima
parte, più intima e psicologica, e quella che racconta il rapporto
rovinoso con la giovane prostituta Lisa, anch’ella – come la neve
fradicia – simbolo di una purezza perduta.
Imprigionato nel suo antro, il protagonista compie la sua scomoda
discesa nella coscienza malata, assistito dalla presenza muta e sgarbata
del servitore-giudice Apollion e visitato dalle apparizioni immaginate
di Lisa, la cui innocente perdizione potrà essere lo spunto per
precipitare in fondo al baratro, oppure un’ancora di salvezza per
tornare “a riveder le stelle”…
«ma cosa è meglio, una volgare felicità oppure un’elevata sofferenza?»
ho da poco compiuto cinquant’anni
e forse non è un caso se in questo percorso solitario di un uomo che
guarda dentro se stesso, mi ritrovo a farlo da solo, seppure sostenuto
dalle immagini, dai suoni, dalle luci dei miei preziosi collaboratori
vorrei dedicare le parole forti di questo poeta dell’Uomo che è Fëdor
Dostoevskij ad alcuni poeti della scena che non ci sono più, ma che ho
avuto la fortuna di conoscere, dai quali ho imparato molto e che
continuano a riaffiorare nel silenzio dei pensieri e del ricordo
a Leo, innanzitutto, poeta e maestro di arte e di etica; a Matilde
Marullo, ignota a tanti ma profondamente cara al mio cuore grato; ad
Antonio Neiwiller, poeta del tempo; a Raoul Ruiz, poeta
dell’imperfezione; a Valeria Moriconi, grande signora del teatro alla
quale devo indimenticabili emozionia tutti loro grazie