percorsi per la costruzione del personaggio nel teatro di Jon Fosse
a cura di Marco Sgrosso
“Tra non molto saranno tutti morti e altra gente sarà lì, in quelle case… 
pian piano tutti vengono sostituiti con altri” 
 Jon Fosse, Sogno d’autunno
In
 diverse laboratori di formazione e di trasmissione dell’esperienza 
teatrale ho scelto di concentrare il lavoro con gli allievi attori sul 
percorso di costruzione del personaggio, lasciando sempre - con voluto 
riferimento alla geniale esortazione di Peter Brook - la ‘porta aperta’ 
rispetto alla tentazione di giungere ad una definizione esaustiva di 
questo termine, che dall’illuminante squarcio dell’intuizione di 
Pirandello è oggetto di riflessione e discussioni, nonché bersaglio di 
appassionate adesioni o di decise negazioni. 
Di fatto, nel momento 
in cui l’attore appare in scena, volente o nolente, deve fare i conti 
con questo più o meno ben accetto ospite, la cui ‘presenza’ non dipende 
dalla volontà di legittimarne o meno l’esistenza, ma dal fatto che la 
circostanza stessa dell’essere “in scena” impone all’attore di 
confrontarsi con un sé ‘attraversato’ da un’identità parallela nel 
momento in cui si “mostra” allo spettatore. 
La riflessione attorno 
al concetto di ‘personaggio’ continua a nutrire la mia curiosità dopo 
più di trent’anni di appassionato lavoro, nel corso dei quali questo 
costante ‘fratello di scena’ subiva declinazioni diverse a seconda dei 
differenti percorsi creativi. 
In Cechov ho trovato l’autore ideale e
 perfetto per approfondire un’analisi del personaggio in cui 
confluiscono in mirabile equilibrio componenti psicologiche di segno 
naturalistico assieme ad intuizioni più astratte e oniriche. Con 
Strindberg e Ibsen il gioco si fa più complesso, contaminato dal fascino
 rischioso di implicazioni espressionistiche e simboliste. Lavorando su 
Shakespeare e sui tragici greci, diventa impossibile prescindere dalla 
dimensione tragica e mitica. Ma anche con altri autori – da Garcia Lorca
 a Durrenmatt, da Calderon a Wedekind – il percorso si è sempre 
arricchito di implicazioni nuove, di ostacoli e di scoperte. 
Perciò 
mi appare adesso di grande stimolo affrontare in quest’ottica l’universo
 concreto ma impalpabile, rarefatto e sfuggente di Jon Fosse, autore 
decisamente ‘anti-psicologico’ eppure in bilico tra il classico e il 
contemporaneo, modernissimo nello stile e nella forma ma intriso di echi
 quasi arcaici. 
I “personaggi” dei testi di Fosse sembrano composti 
della pura sostanza dei suoni delle loro parole asettiche e dei loro 
ostinati silenzi, sono calati in una dimensione onirica, evanescenti 
eppure molto concreti, sospesi tra frammenti di confessioni, memorie e 
recriminazioni, pervasi da una nebbia emotiva che attutisce suoni e 
contrasti, scolora gli eccessi e stende una patina sui clamori e sugli 
eccessi del sentimento, che pure di tanto in tanto improvvisamente 
divampano con fulminea violenza di breve respiro. Nelle loro relazioni 
sentimentali e generazionali, ambigue e inaffettive, dominano disagio, 
incertezza, indifferenza e solitudine, un erotismo gelido e brutale 
nella deriva del sentimento ed in una impercettibile vaghezza del 
confine, sia spaziale che temporale. Nei suoi testi aleggia un’eleganza 
ruvida distesa in tempi senza eventi, eppure un’impalpabile 
suspense incatena ogni frase alla successiva mentre parole e azioni 
alludono, con discrezione ma rovinosamente, ad altri misteriosi rimandi.
 I dialoghi sono avari, scarni, anemici, afasici, catatonici, 
destrutturati: strumento di una scrittura di chiara impostazione 
musicale, ricca di spazi vuoti e di “non-detto”, densa di una poesia 
raggelata che narra di malinconie inguaribili. 
In questo universo 
nitido ma malato, i vivi si incontrano con i morti e insieme si 
confondono nella sinfonia placida e ossessiva di una memoria che 
attanaglia e sbiadisce, mentre la colpa e la condanna conflagrano con 
l’indulgenza e con il perdono e la luce diafana del paesaggio nordico 
riverbera e brucia in queste anime disabitate.
